Il Giudice per le Indagini Preliminari di Milano, Tommaso Perna, ha respinto oltre 140 richieste di arresti per altrettanti indagati avanzante dalla Direzione Distrettuale Antimafia milanese disponendo il carcere solo per 11 persone e non per associazione mafiosa ma solo per altri reati.
Il gip aveva depositato l’ordinanza nelle scorse settimane ma la Dda di Milano hanno deciso di ricorrere prima al Riesame e di chiudere le indagini contestualmente all’esecuzione dei pochi arresti accolti dal giudice.
La nuova inchiesta che ha coinvolto 153 persone, condotta dai carabinieri e coordinata dal pm della Dda, Alessandra Cerreti, verte su un presunto “patto” tra le tre mafie – Cosa Nostra, ‘ndrangheta e camorra in Lombardia – ma le accuse di associazione mafiosa sono state tutte smontate nell’ordinanza del Gip. Tommaso Perna.
Le considerazioni del gip milanese emergono nell’ordinanza di oltre 2mila pagine con cui ha “bocciato” la ricostruzione emersa dall’indagine svolta dalla dda milanese coordinata dal pm Alessandra Cerreti con la supervisione dell’aggiunto Alessandra Dolci e del procuratore Marcello Viola su una presunta alleanza tra mafie per gestire affari e potere: “Nel “sistema lombardo” composto, come ipotizza la Dda di Milano, da Cosa Nostra, ‘ndrangheta e camorra, non si rinviene alcun sodalizio che si manifesta all’esterno, inteso come gruppo che possiede un prestigio criminale derivante dal vincolo associativo, che gli consente di infiltrarsi nel territorio, di sfruttare la condizione di omertà diffusa, di limitarsi, se del caso a lanciare avvertimenti anche simbolici o indiretti in ambiti politici, amministrativi, imprenditoriali: in tutti quei luoghi, insomma, dove è possibile trarre e moltiplicare profitti economici agendo in maniera organizzata.
La ricostruzione della pubblica accusa che ha prospettato l’esistenza di un “sistema mafioso lombardo” sorto sulla base di un’alleanza tra Cosa Nostra, ‘ndrangheta e camorra, è carente, non essendo emersa la prova, nemmeno indiziaria, del fatto che gli odierni indagati si siano volontariamente associati in un unico sodalizio.
Del tutto assente è la prova del fatto che, all’interno del sodalizio confederativo, alcuni degli indagati svolgano il ruolo di promotori o capi, “dovendosi piuttosto escludere che qualcuno di loro goda di un potere ed una autorità tali da poter impartire ordini a membri di gruppi diversi da quello proprio di appartenenza.
Altresì non vi è prova che (…) sia stata costruita un’organizzazione stabile, posta in essere allo scopo di realizzare un programma criminoso comune, protratto nel tempo, con una ripartizione di compiti tra gli associati, ossia il vincolo associativo.
Dagli atti esaminati è emerso che ciascuno degli indagati, a tutto voler concedere, erano associati all’interno dei singoli sottogruppi, invero piuttosto disomogenei, talvolta composti da meno di 3 individui, dediti in qualche modo allo svolgimento di attività lecite e illecite.
Quello che certamente emerge è, invece, la presenza sul territorio milanese di soggetti che, vantando, per lo meno per alcuni di essi, rapporti qualificati con persone di sicura appartenenza mafiosa, sia pur accertata in altre regioni, commettono attività lecite, ma anche delittuose, soprattutto di tipo economico, in territorio lombardo.
Nella nuova inchiesta della Dda di Milano mancano, tra l’altro, le prove per affermare che Paolo Aurelio Errante Parrino, cugino di Matteo Messina Denaro, abbia proseguito, anche dopo la prima condanna del 1997, il suo rapporto di affiliazione al mandamento di Castelvetrano, né tantomeno all’associazione lombarda ipotizzata dalla Pubblica Accusa, ossia quella confederazione di tre mafie.
È vero che Parrino è un “esponente storico del clan” mafioso di Messina Denaro, “seppur da tempo trasferitosi” a vivere ad Abbiategrasso, nel Milanese, ma manca nell’inchiesta la prova dell’esternazione nel territorio milanese della metodologia mafiosa da parte sua.
La Procura su Parrino, come in realtà su decine di altri indagati, ha portato solo elementi di tipo “suggestivo” per provare che il 76enne abbia continuato a far parte del sodalizio mafioso anche dopo la fine degli anni ’90. Manca, tra le altre cose, la prova del contenuto degli incontri tra Parrino e Bellomo Girolamo”.
Secondo l’accusa, Parrino sarebbe stato intermediario per conto della famiglia trapanese dei Pace nella controversia con Amico Gioacchino. In particolare nel novembre 2021 a Castelvetrano Parrino avrebbe incontrato anche le sorelle, la nipote e la madre dell’allora superlatitante Messina Denaro.
Sempre secondo gli inquirenti Parrino avrebbe intrattenuto “perduranti e confidenziali rapporti” con il sindaco di Abbiategrasso, nel milanese, Cesare Nai – non coinvolto nell’inchiesta – che chiamava, “Cesarino”, e con altri esponenti del Consiglio comunale.
Secondo il gip, tuttavia non sussiste alcuna prova che Parrino abbia messo in pratica la “metodologia mafiosa” nei fatti contestati definiti dallo stesso giudice anche come “scarsamente rilevanti”, e che addirittura lo avrebbe fatto come presunto appartenente della confederazione delle tre mafie.
Tra l’altro, quando un detenuto si sarebbe rivolto a Parrino affinché intervenisse sul sindaco perché, mentre era in carcere, gli era stata “sequestrata l’abitazione di edilizia popolare”, l’intervento del 76enne si era rivelato “non dirimente”, stando alle considerazioni del gip, trovando “l’opposizione” del primo cittadino.
Un episodio che secondo il giudice dimostra che “la presunta associazione” non è “in grado di esercitare alcun potere di controllo sul territorio“.
Per il gip, in pratica, a Parrino sono state contestate dal pm “vicende bagatellari”.
Nel corso di un’audizione alla commissione antimafia, lo scorso agosto, anche il procuratore di Milano, Marcello Viola, aveva parlato della “alleanza” tra le mafie in Lombardia. “Recenti inchieste – aveva dichiarato – “hanno evidenziato accordi stabili e duraturi tra ‘ndrangheta, criminalità siciliana e quella di stampo camorristico, fenomeno questo particolarmente allarmante in quanto dà solidità a “una rete trasversale” che opera soprattutto nel “settore del riciclaggio”. Dinamiche mafiose che definiscono un network che si salda su interessi concreti“.