Nell’inchiesta della Dda di Milano sul “sistema mafioso lombardo“, che ha portato ad 11 arresti e 153 avvisi di conclusione delle indagini preliminari, figura anche Paolo Aurelio Errante Parrino, che, secondo gli inquirenti, sarebbe stato il punto di raccordo tra le tre mafie – cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra – nel Nord Italia e l’ex latitante Matteo Messina Denaro, morto lo scorso settembre.
La Dda milanese accusa Parrino, già condannato in passato per associazione mafiosa, di essere uno dei componenti del sistema mafioso lombardo e di aver trasferito al boss comunicazioni relative ad argomenti esiziali per l’associazione mentre era latitante, svolgendo il ruolo di referente nell’area lombarda della Provincia di Trapani, con specifico riferimento al Mandamento di Castelvetrano, riconducibile a Messina Denaro, latitante sino al 16 gennaio 2023.
Parrino per gli inquirenti avrebbe anche mantenuto e curato i rapporti con la famiglia del vertice di Cosa Nostra, occupandosi di qualsiasi necessità del nucleo familiare da soddisfare in Nord Italia, compreso un adeguato supporto logistico in caso di bisogno.
Secondo l’accusa, Parrino sarebbe stato intermediario per conto della famiglia trapanese dei Pace nella controversia con Amico Gioacchino. In particolare nel novembre 2021 a Castelvetrano Parrino avrebbe incontrato anche le sorelle, la nipote e la madre dell’allora superlatitante Messina Denaro.
Sempre secondo gli inquirenti Parrino avrebbe intrattenuto “perduranti e confidenziali rapporti” con il sindaco di Abbiategrasso, nel milanese, Cesare Nai – non coinvolto nell’inchiesta – che chiamava, “Cesarino”, e con altri esponenti del Consiglio comunale.
Nonostante gli indizi a suo carico il Giudice per le Indagini Preliminari di Milano, Tommaso Perna ha respinto la richiesta di arresto di Parrino, insieme a quella di altri oltre 140 indagati.
Nella nuova inchiesta della Dda di Milano mancano, tra l’altro, le prove per affermare che Paolo Aurelio Errante Parrino, cugino di Matteo Messina Denaro, abbia proseguito, anche dopo la prima condanna del 1997, il suo rapporto di affiliazione al mandamento di Castelvetrano, né tantomeno all’associazione lombarda ipotizzata dalla Pubblica Accusa, ossia quella confederazione di tre mafie.
È vero che Parrino è un “esponente storico del clan” mafioso di Messina Denaro, “seppur da tempo trasferitosi” a vivere ad Abbiategrasso, nel Milanese, ma manca nell’inchiesta la prova dell’esternazione nel territorio milanese della metodologia mafiosa da parte sua.
La Procura su Parrino, come in realtà su decine di altri indagati, ha portato solo elementi di tipo “suggestivo” per provare che il 76enne abbia continuato a far parte del sodalizio mafioso anche dopo la fine degli anni ’90. Manca, tra le altre cose, la prova del contenuto degli incontri tra Parrino e Bellomo Girolamo”.
Secondo il gip, quindi, non sussiste alcuna prova che Parrino abbia messo in pratica la “metodologia mafiosa” nei fatti contestati definiti dallo stesso giudice anche come “scarsamente rilevanti”, e che addirittura lo avrebbe fatto come presunto appartenente della confederazione delle tre mafie.
Il gip fa anche riferimento ad un episodio che dimostrerebbe che che “la presunta associazione” non è “in grado di esercitare alcun potere di controllo sul territorio“. Un detenuto si sarebbe rivolto a Parrino affinché intervenisse sul sindaco perché, mentre era in carcere, gli era stata “sequestrata l’abitazione di edilizia popolare”, l’intervento del 76enne si era rivelato “non dirimente”, stando alle considerazioni del gip, trovando “l’opposizione” del primo cittadino.
Per il gip, in pratica, a Parrino sono state contestate dal pm “vicende bagatellari”.